Christopher soffre di autismo, l’assassinio del cane della vicina innesca in lui la voglia di scoprire il colpevole: la ricerca della verità ci farà conoscere a fondo il protagonista e il mondo che lo circonda.
Il giallo si sviluppa in maniera molto originale. Il tutto è condito da un linguaggio davvero unico. Di fatto, si tratta di un sotterfugio per riuscire a entrare nella mente di questo giovanotto difficile.
Ogni particolare è esaminato con precisione: Il cane è morto davvero? La vicina chi è? E ogni evento irrilevante assume importanza strategica nelle indagini di Christopher. I confini strettissimi, che lo legano a casa e scuola, si sbriciolano quando la necessità di chiarire l’evento tragico accaduto al cane, proietta il protagonista nel mondo “reale”, assolutamente più grande e diverso da quello disegnato ad hoc da chi gli vuole bene.
Voglio ringraziare un’amica per avermi fatto scoprire questo libro. Sono soltanto dispiaciuto di non aver avuto notizie sull’esito della partita Inghilterra – Romania (particolare secondario e irrilevante a guardar bene; forse finita 134 a 0).
Altro discorso va fatto a riguardo del pezzetto di Lego da otto. Non mi è chiaro se la confessione avviene in conseguenza alla sua apparizione, cioè in quanto oggetto mistico che costringe a dire assolutamente la verità, o se trattasi di un irrilevante particolare. Propendo per la prima ipotesi… in bricks we trust.
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progetto abbinamenti
quando: alle 00.07
dove: nel giardino dei vicini
piatto: filetto alla Wellington
vino: Cabernet doc Breganze “Bosco Grande”
drink: Cosmopolitan
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Mezzanotte e sette minuti. Il cane era disteso sull’erba […] Gli occhi erano chiusi. Sembrava stesse correndo su un fianco […] Il cane però non stava correndo, e non dormiva. Il cane era morto.
Decisi che avrei scoperto chi aveva ucciso Wellington […] decisi di fare qualche indagine. […] il forcone apparteneva alla signora Shears. […] mi domandai se fosse stata la stessa signora Shears a uccidere Wellington. Ma se era stata lei perché si era precipitata fuori urlando: “che cazzo hai fatto al mio cane?”
Dentro il mio cervello si stava producendo una Catena di Ragionamenti
(Mark, Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, Einaudi, 2003, pp. 3, 40-42, 54)
Un manoscritto, una traduzione miracolosamente ritrovata, un mistero sconvolgente caduto nell’oblio e finalmente tornato alla luce. Eco ci rapisce, raccontandoci gli eventi riportati da Adso da Melk, l’autore del manoscritto perduto; la precisione con cui è stato scelto ogni particolare e lo stile sono impeccabili, tanto da rendere perfettamente realistico questo romanzo.
Lessi “Il nome della rosa” molti anni fa, lo considero tra i migliori libri mai letti. Già da un anno il libro stava nel luogo in cui ripongo quelli che vorrei descrivervi; finalmente, alle tante parole spese a suo riguardo, aggiungo le mie.
In questo libro accompagnerete un investigatore di mirabile acume nel percorso verso la verità; la lettura permetterà di conoscere più a fondo un’epoca lontana; tra le altre cose, avrete anche l’occasione di rispolverare qualche nozione di erboristeria e, soprattutto, rifletterete su bene e male e come sia difficile amministrare la giustizia; il testo vi offrirà l’opportunità di arricchire il vostro lessico e scoprire la finezza dell’autore nell’uso delle parole.
Sinceramente, non credo d’essere portatore di nuove idee o interpretazioni innovative, spero soltanto di far comprendere quanto bello sia stato leggerlo; si tratta di un buon investimento che vi arricchirà certamente.
Esiste una versione cinematografica de Il nome della rosa: il film omonimo di Jean-Jacques Annaud, del 1986. Come il solito, invito a leggere il libro e, eventualmente, poi guardare il film; in questo caso, si tratta di un’ottima trasposizione cinematografica, anche se, inevitabilmente, non riesce a raggiungere la profondità del testo originario.
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progetto abbinamenti
quando: una settimana nevosa
dove: lontano dai rumori della città
piatto: latte, miele e grappoli d’uva
vino: Rossese di Dolceacqua
drink: Angel Face
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Giunto al finire della mia vita di peccatore […] mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere.
“La biblioteca è testimonianza della verità e dell’errore, ” disse allora una voce alle nostre spalle. Era Jorge. Ancora una volta mi stupii […] per il modo inopinato in cui quel vecchio appariva d’improvviso, come se noi non vedessimo lui e lui vedesse noi. Mi chiesi anche cosa mai facesse un cieco nello scriptorium […]
Non mi rendevo più conto di dove fossi, e dove fosse la terra e dove il cielo. [...] Gridai, credo […] poi sprofondai in un buio infinito, che sembrava si aprisse sempre di più sotto di me e non seppi più nulla.
Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
(Umberto, Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 2005, pp. 19, 136, 178-179, 503)
Si tratta di una piccola raccolta di poesie, e forse può turbare la sottigliezza del libricino; appena s’inizia a leggerlo, già dai primi versi, si capisce d’essere di fronte a qualcosa di prezioso. Normalmente sommersi da migliaia di parole inutili, qui ci troviamo di fronte ad un capolavoro, composto con parsimonia, in cui immergerci senza soffocare.
Riuscirete a terminare questa raccolta in pochi minuti; vi capiterà poi spesso di tornare a pensare alle brevi parole dell’autrice, che con una singola frase saprà mostrarvi un mondo intero.
Ho lodato la capacità di Szymborska di trattare concetti molto complessi con una semplicità di linguaggio unica; non mi dilungo oltre, a buon intenditor, poche parole: leggete questa raccolta!
Sono veramente grato al mio amico Roberto, che un giorno, citando due versi della Szymborska, ha acceso in me la curiosità sulle sue opere, rivelatesi tanto interessanti; spero questa pagina convinca molti di voi a scoprirla.
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progetto abbinamenti
quando: in primavera
dove: ai piedi di un ciliegio in fiore
piatto: Pane di Altamura con olio extra vergine di oliva
vino: Sagrantino di Montefalco
drink: God Mother
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Gli ho chiesto del futuro,
se ancora lo vede luminoso.
Ho letto troppi libri di storia
– mi ha risposto.
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Si sono incrociati come estranei,
[…] immemori
di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.
(Wislawa, Szymborska, Due punti, Adelphi, 2013, pp. 23, 26)
Qualche anno fa, fui attratto dal nome di Giorgio La Pira, incuriosito, cercai un testo che ne parlasse. Ho trovato questa biografia molto interessante perché riesce a trasmettere molto bene il messaggio politico di La Pira; è stata scritta da un suo amico, quindi non si deve intendere come un saggio storico, ma un’opportunità di conoscere da vicino la sua figura.
Con La Pira, l’utopia diviene un traguardo raggiungibile. La visione cosmopolita di La Pira si oppone alla situazione geopolitica della sua epoca, che vede due fronti contrapposti, pronti all’annientamento reciproco; in tale contesto, il rivoluzionario messaggio di fratellanza che propone La Pira, assume un significato assolutamente importante.
La Pira ci pone nella condizione di annullare le distanze, e rende ogni cittadino uguale all’altro: le città di tutto il pianeta diventano una sola. Credo che in La Pira il concetto di globalizzazione sia già superato, la nostra “modernità” è antiquata rispetto alla sua idea di unire i cittadini del mondo nella difesa del diritto a vivere in un contesto urbano.
La biografia non tratta soltanto i temi della “fratellanza globale”, cui ho dedicato molto spazio nelle prime righe che ho scritto. E’ raccontata anche la sua attività di sindaco e le vicende che lo vedranno coinvolto nei problemi della città, oltre che un approfondimento della sua visione della società, legata al mondo cattolico a cui mai si allineerà completamente. Durante tutta la sua carriera, infatti, riuscirà a scontentare ogni forza politica, sia il suo partito sia le forze a esso opposte.
Bene, spero che le mie parole abbiano invogliato qualcuno di voi ad approfondire la conoscenza di quest’uomo, che potrebbe essere indicato come modello da seguire nella nostra società sempre più individualista.
Un’ultima riflessione: in un’epoca “difficile” come la nostra, dovremmo saper scegliere con grande accuratezza la nostra classe dirigente; mi chiedo se, oggi, un candidato come Giorgio La Pira riuscirebbe a vincere le elezioni a sindaco in una grande città.
Le città capitali di tutto il mondo si promettono reciprocamente amicizia e pace. “Signori, intuisco già le critiche degli scettici, dei piccoli Machiavelli della politica: – a che serve un atto simile? Forse che noi Sindaci abbiamo il diritto di guerra e di pace? […] Hanno gli Stati il diritto di distruggere le città?”
Convegno dei Sindaci delle Capitali di tutto il mondo, Palazzo Vecchio, Firenze, 2 – 5 ottobre 1955.
Rividi, […] con l’immaginazione, la mia dolce, misurata, armoniosa Firenze; rividi […] tutte le […] città e cittadine toscane e italiane; volsi lo sguardo a tutte le incomparabili città d’Europa […] passai con l’immaginazione […] alle città parimenti preziose di tutti gli altri continenti […] e mi domandai inorridito: è mai pensabile che […] queste essenziali strutture della civiltà umana […] possano essere radicalmente eliminate dalla faccia della terra?
(Ernesto, Balducci, Giorgio La Pira, Giunti, 2004, pp. 52 – 54, 57)
Mikage, la protagonista, è una ragazza sola; il racconto narra il suo percorso per trovare la serenità. L’autrice ci accompagna alla scoperta del microcosmo di Mikage, dove elementi apparentemente scombinati, e un’esistenza molto difficile, si stabilizzano in orbite ordinate in cui, nonostante l’ostilità di ciò che la circonda, a vincere è il suo desiderio di felicità.
Per l’equilibrio della ragazza, diverrà centrale il rapporto con la cucina, sia come luogo in cui sentirsi al sicuro, sia come opportunità di svago e motivo di realizzazione. L’ambiente domestico assume così una valenza protettiva, diviene un ambiente favorevole alla rinascita e alla realizzazione interiore.
L’autrice riesce a dare grande spessore ai personaggi, ed in particolare alla protagonista; ne risulta che anche particolari, che noi potremmo ritenere insignificanti, acquisiscano un’importanza inaspettata; forse, dopo la lettura di questo breve racconto, potremo trovare nei piccoli gesti quotidiani, che svolgiamo sovrappensiero, nuovi stimoli per apprezzare, come Mikage, la bellezza delle piccole cose.
Il testo è leggero, preciso e facile da leggere, si riescono a sentire i rumori e a vedere le luci descritte minuziosamente da Yoshimoto. In una parola: bellissimo. Grazie a chi mi ha fatto conoscere Banana Yoshimoto.
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progetto abbinamenti
quando: notte con grande luna
dove: ai piedi del frigorifero
piatto: anguilla ai ferri
vino: Bosco Eliceo Fortana
drink: Long Island Iced Tea
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Amavo il divano di casa Tanabe quasi quanto la loro cucina. Dormirci sopra era un piacere. Mi addormentavo sempre tranquilla, cullata dal respiro delle piante, e avvertendo la presenza del panorama notturno dietro le tende.
Perché amo quanto ha a che fare con la cucina fino a questo punto? E’ strano. Per me è come ritrovare un’aspirazione lontana, incisa nella memoria dello spirito. Stando in piedi al centro di una cucina tutto ricomincia da capo e qualcosa ritorna.
Mentre lavavo la gran mole dei piatti facendo scorrere piano l’acqua per non svegliare Yūichi, cominciai a piangere senza freno. Naturalmente non era il pensiero di dover lavare quella quantità enorme di piatti, ma perché mi sentivo completamente abbandonata, persa, nella desolata solitudine di quella notte.
[…] gran parte della storia è incisa nei sensi. E cose di nessuna importanza, insostituibili, ritornano così all’improvviso, in un caffè d’inverno.
(Banana, Yoshimoto, Kitchen, Feltrinelli, 2014, pp. 24, 55, 63, 71)
Si tratta di una storia onesta e piacevole, che probabilmente vi indurrà a correre di pagina in pagina, per scoprire come andrà a finire. Un uomo, Robert Grainer, e la sua vita faticosa. Una solitaria esistenza nei boschi.
L’America è un immenso cantiere, e il sogno americano è ancora in divenire; la sfida è in pieno svolgimento. La natura è un ostacolo da superare a tutti i costi. Il progresso è dietro l’angolo.
Robert contribuisce alla creazione del sogno, ma non godrà di quel nuovo fantastico mondo. Dopo aver investito tutte le sue energie nel lavoro, necessario alle grandi opere che tanto lo affascinano, girando l’America di cantiere in cantiere, offrendo il suo corpo all’ingranaggio della crescita, l’unica cosa che otterrà sarà il logoramento del suo possente fisico. Costretto ad abbandonare la vita difficile del lavoratore itinerante, si ritirerà nella sua isolata proprietà, lontano da tutti.
Qui, nella foresta, scoprirà di sentirsi in pace con se stesso, e farà strani incontri … forse inspiegabili. In quest’assoluta solitudine, non si sentirà solo … almeno non più di quando, costretto a tornare tra la gente al villaggio, rientrerà in contatto con tante superflue figure insignificanti. E se qualcuno gli facesse notare di essere diventato un eremita, lui, stranito, risponderebbe di non sentirsi per nulla tale.
Questo romanzo è interessante perché non è soltanto una bella storia, scritta molto bene dall’autore che riesce a caratterizzare con gran realismo il mondo in cui vive il protagonista; leggendolo, potremo riflettere con un’ottica nuova sui temi del progresso, della civiltà che sta facendo passi da gigante… così da chiederci verso cosa stiamo correndo.
Sarà forse meglio riprendere a camminare, prender fiato, e ragionare sul percorso? O piuttosto lanciarsi verso il futuro, un futuro qualunque?
Grainer apprezzava quel lavoro, lo sforzo, la spossatezza inebriante, il profondo riposo alla fine della giornata.
Ora dormiva sonni tranquilli, e spesso sognava i treni, e un treno in particolare: ci viaggiava sopra; sentiva l’odore del fumo di carbone; un mondo gli passava accanto. E poi si ritrovava in piedi in mezzo a quel mondo, mentre il rumore del treno si affievoliva a poco a poco.
Ma doveva tenere una mano libera […] preferì buttare la Bibbia anziché i cioccolatini. Fu questa dimostrazione della sua indifferenza per Dio, il Padre di Tutti, che la portò alla rovina.
(Denis, Johnson, Train Dreams, Mondadori, 2013, pp. 18, 76, 78)
Vi propongo la lettura di un bellissimo racconto, questa volta ambientato nella Milano della Resistenza. Vittorini lo scrive prestissimo, nel 1945, quando i fatti sono appena accaduti, “ancora caldi” qualcuno direbbe. L’autore sembra spinto da una grande forza che lo costringe a narrare: con un approccio incredibilmente semplice, ci offre un’immagine dettagliata di quello che fu il clima della guerra civile. Ne risulta un testo splendido, pieno di significato, che cerca di far riflettere senza alcuna censura sul tema del bene e del male.
L’autore ci presenta un partigiano, Enne 2, e i mille dubbi che lo affliggono mentre cerca di cacciare i tanti nemici che dominano una Milano atterrita dalla violenza. Diventa chiaro come, in quei momenti, fosse necessario prendere delle decisioni, non restare a guardare. In tempo di guerra, le conseguenze di una decisione possono essere drammatiche: questo vuole dirci l’autore, che ci svela nei momenti più intimi del racconto, tutti i dubbi che affollano la mente del protagonista.
Non ci troveremo di fronte ad un uomo convinto di essere nel giusto; all’opposto, Enne 2 ha paura di sbagliare, di mal interpretare cosa sia meglio fare, di essere causa di dolore; ha paura di deludere; non si sente un eroe. Il protagonista parla a se stesso raccontandoci il suo costante stato di dubbio: Enne 2 non ha certezze… non sa spiegarsi se il suo agire può essere considerato giusto, se i compagni perderanno o hanno già perso la vita per qualcosa di giusto.
Leggendo “Uomini e no” ci convinciamo di quanto sia importante decidere, e come sia naturale agire, portando avanti le proprie idee anche fino alle estreme conseguenze. Vittorini mette in luce i facili comportamenti dettati dalla mera sopravvivenza: per esempio, aver la pancia piena, soprattutto in tempo di guerra, non è semplice; anteporre la propria fame all’essere giusto diventa uno dei tanti modi per stabilire se si è uomini o meno, decidere tra lottare per una società equa o prevaricare l’altro in una società escludente e razzista.
Chiudo con una breve riflessione su un concetto che potremmo definire di “equidistanza” tra le fazioni: cioè la tendenza, che sembra si stia affermando ultimamente, di parificare la morte di ogni italiano, con l’intento di avvalorare un messaggio del tipo: “è stata una guerra civile disastrosa, che ha causato tantissime morti; le due fazioni, parimenti colpevoli di tante morti, hanno combattuto con convinzione per ideali opposti e da tutti ritenuti, in buona fede, giusti. Ergo: pari onore a tutti i caduti”.
Dopo tanti anni, ritengo sia di vitale importanza non perdere il senso dell’atrocità della guerra, ma assolutamente senza mettere tutti sullo stesso piano: se facessimo così, diverrebbe equivalente essere boia o vittima. Con questo non voglio dire che sia giusto offendere i tanti caduti della parte che infine ha perso la guerra, dovremmo ricordare ciò che è accaduto per costruire un paese migliore, che non ricada in errori analoghi o peggiori, per non tornare ad ammazzarci a vicenda.
Ecco perché è importante leggere questo racconto: per riflettere su ciò che animava le parti in lotta. Ognuno, in quell’epoca difficile, aveva mille dubbi… e l’aver deciso di stare di qua o di là non era equivalente… essere il carnefice o la carneficina non fu solo questione di geografia… stare di qua o di là del flusso delle pallottole non fu un dettaglio trascurabile.
Appuntamento al cinema (prima dovete assolutamente leggere il libro): “Uomini e no” di Valentino Orsini del 1980. Una trasposizione abbastanza fedele, i dialoghi sono spesso rispettati meticolosamente, e il clima di tensione che si percepisce durante la lettura è ben tradotto. Purtroppo, il film non comunica il senso più profondo del racconto, ovvero i turbamenti del protagonista.
Bisogna che gli uomini possano essere felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici. Non è solo per questo che le cose hanno un senso?
Nella grande sala del primo piano si stavano scegliendo […] quaranta nominativi di uomini da tirar fuori di cella […] e fucilare. Senza interrogatorio, senza difesa, senza nemmeno una concreta accusa […] e nessuno, giù nel corpo di guardia, né biondo tedesco, né giovane o vecchio milite italiano, pensava un momento a quello che la riunione del primo piano significava […] eppure la cosa che accadeva di sopra accadeva per via di loro, e mai avrebbe potuto accadere se tutti loro non fossero stati lì a mangiar cioccolato e giocare con un cane.
Noi vogliamo sapere […] se è nell’uomo quello che essi fanno quando offendono.
(Elio, Vittorini, Uomini e no, Mondadori, 2012, pp. 13, 76-77, 176)
Un gruppo di ragazzini sopravvive a un disastro aereo e si ritrova in un’isola deserta; so che ormai tutti, famosi o meno, prima o poi, naufragano in un’isola, ma questa è una storia particolare, che val la pena di scoprire! L’autore descrive il ritorno alla natura dei giovani che, inevitabilmente, perdono l’infantile innocenza; purtroppo, la situazione sfugge loro di mano e nemmeno l’uso della conchiglia, che dapprincipio era diventata il simbolo della convivenza pacifica sull’isola, riesce a mantenere l’ordine.
I disaccordi iniziali si trasformano in insanabili dissidi, sfociando in una violenza di tale intensità da poter sembrare impossibile in dei bambini. E’ evidente come l’autore non nutrisse nessuna fiducia in un futuro di pace, probabilmente era un pessimista (brutta gente, i pessimisti)… o semplicemente un buon osservatore.
Ciò che Golding descrive non è altro che la trasposizione della violenza degli adulti in un contesto infantile; il modo naturale di relazionarsi dei bambini, il gioco, si trasforma in massacro. I ragazzini, cresciuti repentinamente, portano a frutto gli insegnamenti appresi dalla società dei genitori, che li ha educati (inconsciamente?) alla violenza.
La paura è centrale, accompagna tutta l’opera; ogni evento è scatenato, consciamente o inconsciamente, dalla paura; la paura impedisce al gruppo di stabilire una convivenza pacifica. Paura del buio, dell’ignoto; ed è un terrore indescrivibile e impalpabile a trasformare i ragazzini in feroci creature che cercano con l’aggressività di allontanare ogni timore; la paura prende il sopravvento sull’obbiettività, sul buon senso, condannando il gruppo all’autodistruzione.
Anche se il libro è stato scritto circa cinquanta anni fa, la lettura è molto utile oggi perché offre tantissimi spunti sulle difficoltà della convivenza. Oggi siamo tenuti a decidere se aver paura di tutto ciò che non conosciamo, e quindi combattere fino a eliminare ogni “nemico”, o vincere la paura e coraggiosamente cercare la via per convivere con ciò che ci circonda. Se si sceglie di combattere, il problema, in ultima analisi, è solamente uno: saremo in grado di fermarci prima di eliminare anche la nostra ombra?
Torniamo al cinema: consiglio la visione de “Il signore delle mosche” di Peter Brook del 1963; un film molto bello, che non si discosta molto dal testo (sempre valido il precetto: prima leggete, poi guardate).
«I grandi sanno cavarsela» disse Piggy. «Non hanno paura del buio. Si troverebbero insieme a prendere il tè e a discutere, e tutto andrebbe a posto…» «Non darebbero fuoco all’isola. E non perderebbero…» «Costruirebbero una nave…» In piedi nel buio i tre ragazzi si sforzavano inutilmente di esprimere la maestà della vita degli adulti. «Non litigherebbero…»
«Io ho paura. Ho paura di noi. Voglio tornare a casa. O Dio, voglio tornare a casa!»
«Che cosa è meglio: avere delle leggi e andare d’accordo, o andare a caccia e uccidere?» […] «Che cosa è meglio: la legge e la salvezza o la caccia e la barbarie?»
(William, Golding , Il Signore delle Mosche, Mondadori, 1992, pp. 108, 185, 213)
in cinque giorni c’erano stati 171 impiccati, 603 fucilati, 800 deportati
Nel 1944 anche a Bassano del Grappa c’era la guerra, ma il nemico non era solo straniero, gli italiani si combattevano tra loro. I fatti raccontati in questo saggio vogliono far luce su ciò che accadde quell’anno e chiarire cosa portò alle impiccagioni del 26 settembre.
Un saggio di storia locale per conoscere ciò che è accaduto a due passi da casa; letture utili soltanto a chi vive nei pressi dei luoghi di cui si parla? Non credo proprio; un racconto di questo tipo aiuta a chiarire la genesi di mille altre vicende simili, vicine e lontane geograficamente o temporalmente. La violenza è sempre uguale a se stessa ed è sempre l’uomo con la sua disumanità ad attuarla, anche se ogni giorno ci pare nuova, perché raccontata a vivaci colori da giornalisti desiderosi di accattivarsi il pubblico, che ama tenersi informato sul nuovo macabro particolare.
Perché informarsi? Perché leggere? Ci troviamo di fronte al dilemma: dimenticare o tener viva la memoria di ciò che è stato? La prima via, la più semplice, non implica alcuno sforzo… basta lasciare che l’oblio inghiotta tutto. La seconda, invece, è a mio parere un vero e proprio dovere; implica un grande dispendio di energie, ma dovrebbe permetterci di sviluppare gli anticorpi per impedire il ripetersi delle brutalità che hanno vissuto i nostri antenati.
I giovani intorno fanno gazzarra con la sigaretta in bocca, sghignazzano, beffeggiano, irridono i morenti, non hanno nemmeno il pudore di fare silenzio davanti allo spettacolo grave di chi muore per un’Idea, e allora compresi ancor più quale baratro di odio si era aperto tra Italiani e Italiani ed ho pianto nel considerare in quale tragica condizione eravamo ormai ridotti, spento ogni sentimento fraterno, di solidarietà nazionale, di umanità.
Il rastrellamento del Grappa aveva inferto un colpo terribile alla Resistenza nel Bassanese: in cinque giorni c’erano stati 171 impiccati, 603 fucilati, 800 deportati, dei quali solo 200 sarebbero tornati.
(Francesco, Tessarolo, 1944 la strage annunciata. Contesto generale e particolarità dell’Eccidio di Bassano del Grappa, attiliofraccaroeditore, 2014, pp. 252, 268)