Tre romanzetti borghesi, come potete intuire, è una raccolta di tre brevi racconti. Di che parlano? Di borghesi direte… Esatto! Tre bellissimi racconti per smontare l’effimero mondo in cui si sono ben inseriti dei professionisti di Barcellona.
Forma nel verde, Carmelo Cappello, 1964, Litografia
Respireremo il clima surreale della città dominata dai personaggi di Donoso, certamente vincenti per i canoni della società in cui vivono, ma che non superano l’esame dell’autore, che ci rivela la loro vera natura: vacue persone che non sanno riempire il vuoto di una vita di sola apparenza.
La lettura è veloce e piacevole, l’autore riesce a far sembrare normale lo stravagante mondo che ci illustra: l’ambiente in cui Donoso ci propone le stranezze dei protagonisti è tanto surreale da rendere tutto plausibile; gli eventi ci portano dalla Barcellona che crediamo di conoscere verso un mondo fantastico, dove emergono i tanti problemi della società; le contraddizioni che ci mostra Donoso sono profonde e la classe dirigente, che dovrebbe essere in grado di superarle, fallisce miseramente dimostrandosi nettamente inferiore alle attese.
Lithograph No. 42, Pierre Soulages, 1979, Litografia
E’ molto strano cercare di convincervi che queste novelitas è bene leggerle. E’ così ovvio che debbano essere lette; lasciate quel che state facendo e correte in biblioteca, subito! E se non sono stato convincente, ascoltatemi comunque e leggetele, con senso critico e la gran voglia di dirmi “ti sbagliavi”… se non mi darete ascolto vi lascerete scappare un libro davvero interessante.
Infatti, con facilità il lettore è portato a riflettere sulla felicità, o meglio su ciò che spesso pensiamo possa essere motivo di felicità; inoltre, senza pietà, l’autore cerca di animarci a cambiare gli stereotipi che ci inducono a vivere secondo schemi lontani dalla nostra natura. Lo stile è leggero, il clima fantastico in cui avvengono i fatti rafforza il potere del testo che assume valore di rivelazione.
Cuadro 23, Manolo Millares, 1957, Tecnica mista con olio, gesso, fili di sacchi di tela
Non è chiaro il motivo per cui ho abbellito l’articolo con queste opere? Se leggerete il secondo racconto, concorderete che la scelta ha qualche senso. Si tratta di opere che danno un tono all’articolo, forse non ho scelto l’ordine più appropriato; chissà, Millares all’inizio sarebbe stato meglio, ma qualcuno poi avrebbe potuto pensare che le opere erano state ordinate per data di realizzazione, ed io non vorrei proprio mi si confondesse con una persona che ordina le opere cronologicamente. E’ evidente che deve essere il senso estetico a dettar legge.
Ho letto le novelitas in spagnolo (edizione bilingue della Fahrenheit 451), provateci anche voi e, se non vi sentite in grado di affrontare un testo in lingua originale, rimediate con l’italiano. Purtroppo, non ho trovato altre edizioni in solo spagnolo o italiano; è un vero peccato che libri così interessanti siano quasi introvabili.
Avrei voluto chiedere a Ramon, che era innanzitutto un uomo di mondo, il perché di quella ossessione di Sylvia per Magdalena, in che cosa consistesse quella “affinità” tanto ostentata, a parte la perfetta sincronia nel cantare e ballare Chatanooga Choochoo. Ma non ebbi tempo di farlo perché Ramon balzò dalla sedia e seguì Sylvia, chiudendo dietro di sé la porta della terrazza e lasciandomi solo, vicino alla strana vita dei pezzi di carne che sfrigolavano sulla brace come unica compagnia.
Ramon insisteva sul fatto che in tutte le sue case, quale che fosse la somma preventivata, la stanza da bagno doveva essere perfetta, che la funzionalità dei bagni era, in ultima analisi, la prova definitiva dell’architetto di valore.
Stanza da bagno, Fernando Botero, 1993, olio su tela
Sylvia guardò stranita suo figlio, senza capire come poteva aver dato alla luce un essere che parlava di quelle cose.
–Suppongo che finirò per portarlo a vedere la Sagrada Familia nei miei momenti di pausa. –Ma fallo andare con Ramon: ha tanto cattivo gusto che credo ammiri quella torta nuziale costruita da un pazzo…
–Che ti succede, figlio mio?–Niente.–Hai fumato marijuana?–No.–Neanche LSD? Bisogna stare più attenti con quella roba.–No.–Stavi…–Riposando…–Perché sei così stanco?–Ho camminato…–Facendo cosa?–Facendo una passeggiata.–Dove sei stato?–Un po’ dappertutto. Sylvia chiuse gli occhi. –Non ci capisco niente.–Non cercare di capire.–Se fosse marijuana… capirei, per lo meno avrei avuto un punto di riferimento. Ma… questo… E Sylvia si sciolse in lacrime.
(José, Donoso, Tre romanzetti borghesi, Fahrenheit 451, 2012, pp. 43, 49, 309, 321, 355)
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Tre fantasmi costringono un uomo a riflettere sulla propria esistenza; Scrooge, il protagonista dell’incredibile vicenda, scopre di non essere felice, riprende così a vivere liberando l’umanità che aveva imprigionato per tanti anni. Questa rivelazione avviene durante i giorni natalizi, che propiziano momenti di maggiore socializzazione tra le persone. Morale della favola: vogliamoci bene… che stiamo meglio noi e pure gli altri (possibilmente non soltanto il 25 dicembre).
Si tratta di un libricino molto semplice da leggere, forse infantile… Ma, anche se scritto più di 170 anni fa, risulta ancora molto attuale e, vista la nostra sempre più frequente propensione allo shopping compulsivo e ad un radicale individualismo, chissà se ne abbiamo più bisogno noi o Scrooge dei consigli spettrali Così, i fantasmi ci raccontano con semplicità di come siamo e come potremmo essere… anzi, sbagliato… non ci dicono nulla di nuovo… ci danno soltanto uno stimolo in più per riflettere.
Che seri! Non riesco a capire perché ogni libro sembra avere così tanta importanza; mi sa che sono vittima di qualche strano complesso psicologico riassumibile all’incirca così: “Complesso del lettore confuso che trova risposte in ciò che legge”.
Colgo l’occasione per augurarvi Buon Natale. Che finale! … resto senza parole.
Lo spettro emise un lamento, scosse la catena e si torse le mani fantasma. «Sei incatenato» disse Scrooge tremante. «Dimmi, per quale motivo?» «Porto la catena che ho forgiato in vita» rispose il fantasma. «L’ho costruita anello per anello, metro per metro; me ne sono cinto di mia spontanea volontà, di mia spontanea volontà l’ho indossata […]» Scrooge tremava sempre di più.
«Spirito,» disse Scrooge con tono remissivo «conducimi dove desideri. Ho viaggiato l’altra notte e, sebbene costretto, ho ricevuto una lezione che sta già facendo effetto. Questa notte, se hai qualcosa da insegnarmi, lascia che ne tragga profitto.»
(Charles, Dickens, Canto di Natale, Giunti, 2012, pp. 34, 74)
L’uomo ha scontato la sua pena, ma una ancora ne avrà
per il resto dei suoi giorni un’angoscia lo costringe ad errare
di terra in terra
all’uomo insegno la mia storia
Si tratta dell’avventuroso viaggio di un uomo che diventa la metafora del viaggio dell’uomo.
La sintesi di quest’opera? La riassume l’autore: come una nave, avendo oltrepassato l’equatore, venne spinta dalle tempeste nella regione fredda in direzione del Polo Sud; e come da là si diresse verso le latitudini tropicali del vasto Oceano Pacifico; e dei singolari eventi che si verificarono; e in qual modo il vecchio marinaio fece ritorno in patria.
Gustave Doré – I shot the ALBATROSS
Molto veloce da leggere, è una breve opera in versi, scritti in inglese arcaico. La vicenda, come anticipato, riguarda un vecchio uomo… e potremmo limitarci a considerarla una semplice storiella, raccontata da un pazzo che importuna i passanti; ma, come sempre, noi vogliamo andar più a fondo (insomma, complicarci la vita): diventa evidente che l’opera si presta a molte interpretazioni, è pregna di significati esistenziali. Quella del vecchio, potrebbe essere anche la storia delle nostre scelte di vita; come ognuno di noi, il vecchio “sceglie”, senza sapere cosa sia giusto o sbagliato; a volte, le conseguenze sono imprevedibili e spesso ciò che sembra corretto in un primo tempo, si rivela poi fatalmente disastroso.
Poco importa se sia plausibile o meno il viaggio del vecchio; maggiore attenzione dovremmo dare allo stile, al musicale succedersi dei versi e al crescente moto di angoscia che investe il marinaio. Mi piace lo scenario mistico in cui si svolgono i fatti raccontati. Eventi incredibili: d’incubo; sogni, visioni o forse più correttamente allucinazioni, sono raccontati con enfasi dal marinaio, obbligato a diffonderli in eterno… forse nella speranza di farci riflettere sulla nostra estrema debolezza nei confronti dell’ignoto.
Volgendo lo sguardo in altre direzioni, questa volta verso la musica… Vorrei ricordare un pezzo che riprende l’opera di Coleridge: Rime of the Ancient Mariner degli Iron Maiden.
The ship was cheered, the harbour cleared,
Merrily did we drop
Below the kirk, below the hill,
Below the lighthouse top.
—
La nave fu salutata, il porto oltrepassato,
allegramente scomparimmo
oltre la chiesa, oltre la collina,
oltre la cima del faro.
‘God save thee, ancient Mariner!
From the fiends, that plague thee thus! –
Why look’st thou so?’ – With my cross-bow
I shot the ALBATROSS.
—
“Iddio ti salvi, vecchio marinaio,
dai demoni che ti tormentano così!
Perché cambi espressione?” “Con la mia balestra
io l’Albatro abbattei”
Oh! dream of joy! is this indeed
The light-house top I see?
Is this the hill? is this the kirk?
Is this mine own countree?
—
O sogno di gioia! Quella che vedo
è veramente la punta del faro?
E questa la collina? Quella la chiesa?
Questa la patria mia?
(Samuel Taylor, Coleridge, La Ballata del Vecchio Marinaio, Feltrinelli, 2012, pp. 2-5, 8-9, 44-45)
if I had a book or a drink then I didn’t think too much of
other things − fools create their own
paradise
Charles Bukowski, The Last Night of the Earth Poems
“Storie di ordinaria follia” è una raccolta di racconti brevi (42, lunghezza media: 8 pagine). Temi ricorrenti: la mancanza di soldi, l’alcolismo, avventure sessuali più o meno probabili, corse di cavalli e relative scommesse; mix confuso di questi temi, e molto altro… Per dipingere senza nessuna censura la società americana.
Screenshot del film ‘Storie di ordinaria follia’ di Marco Ferreri
Annientando l’ipocrisia e il politically correct, il paladino dei loser americani vince chi lo definisce perdente; la vita di Bukowski è la dimostrazione che non si deve aver paura di essere se stessi. Chi è il perdente? Io, tu? Tutti o nessuno? L’America o Bukowski? Questo il dilemma cui potremmo dare una risposta.
Anche se questi racconti sono una lettura leggera, v’invitano a riflettere su com’è facile lasciarsi ingabbiare da una società che pretende di farci diventare qualcosa di diverso da quello che vorremmo. Poco importa il giudizio su cosa sia stato Bukowski… le sue parole scavano a fondo, non interessano un pubblico ristretto, i soli emarginati; ognuno dovrebbe conoscerlo: per imparare a osservare con occhi diversi il fascinoso mondo delle star, di Hollywood, del sogno americano, affinché un giorno qualcuno non si risvegli di soprassalto accorgendosi che è tutta una fregatura.
Sono certo di una cosa, anche se questa raccolta non vi piacerà, vi insegnerà qualche trucco per vincere ai cavalli. E si sa, a Bukowski, le corse rendevano un sacco di soldi.
Appuntamento al cinema: vi segnalo “Storie di ordinaria follia” di Marco Ferreri (1981), un interessante film che s’ispira a questa raccolta. Vi avverto che all’appello mancano tantissimi argomenti (la sceneggiatura si limita a sviluppare soltanto tre racconti della raccolta). Resta valida la regola: prima leggere il libro e poi guardare il film.
Cass era la più bella ragazza di tutta la città. […] era fuoco fluido in movimento. […] Agli uomini in genere Cass pareva una macchina da fottere […] Io l’incontrai al West End Bar poco dopo che era venuta via dal convento. […] Quella sera entrò là e, semplicemente, si venne a sedere vicino a me. Io ero forse l’uomo più brutto della città […] Non ci dicemmo niente di straordinario, mi sa, […] Cass aveva scelto me e questo era quanto.
da ragazzo avevo appreso, nei cortili delle scuole americane, la vergogna dell’essere sconfitti […] uno deve riuscir vincitore in America, non c’è niente da fare, non c’è altra via d’uscita, e bisogna imparare a combattere per niente, senza fare domande…
“Come mai non è sotto le armi?” “Non ho superato la visita psichiatrica” “Vorrà scherzare” “Grazie a dio, no” “Non ambisce a combattere?” “No” “Ci hanno attaccati a tradimento, a Pearl Harbour” “L’ho inteso dire” “Non ambisce a combattere contro Adolf Hitler?” “Veramente no. Lascio che altri lo facciano” “Lei è un vigliacco” “Sì, lo sono, e non è tanto per non ammazzare la gente, quanto che non sopporto la vita di caserma, dormire con un branco di uomini che russano, e poi essere svegliato da un cazzone che suona la tromba, e non mi va di indossare una ruvida camicia verde-oliva. Ho la pelle molto sensibile.”
Per poco che abbia, un uomo, s’accorge che potrebbe aver anche di meno.
“… cela una estrema sensibilità sotto una scorza di indifferenza…”
Chi ci crede alle cose a venire? […] Gli otto o dieci uomini e donne a bordo d’un astronave, la Nuova Arca, che vanno a trapiantare il seme dell’uomo su un altro pianeta?
Pazzia? Certo. Cosa non è pazzia? Non è pazzia la vita stessa? Siamo come giocattoli con la carica, tutti quanti noi… Qualche giro di chiavetta e, quando la molla si scarica, addio…
(Charles, Bukowski, Storie di ordinaria follia. Erezioni Eiaculazioni Esibizioni, Feltrinelli, 2014, pp. 9-10, 20, 29-30, 37, 187, 335)
Il testo tratta l’ascesa al potere di Ottaviano, analizzando il periodo che va dalla morte del padre adottivo (15 marzo 44 a.C.) alla sua marcia su Roma, epilogo della scalata che sancisce la definitiva presa del potere (19 agosto 43 a.C.).
Bernardino Campi. Ritratto dell’imperatore Ottaviano Augusto, olio su tela, 1562. Copia dalla serie perduta dei Cesari di Tiziano. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. http://www.artribune.com
Nei confusi momenti che seguirono la morte di Giulio Cesare, l’evento che più ha segnato le conseguenze a lungo termine del suo assassinio, è stato la vacanza di potere avvenuta alla morte dei due consoli, durante la guerra di Modena. Questo episodio è stato studiato con precisione da Canfora, che ipotizza non sia stata una fortuita sequenza di eventi quella che ha permesso al giovane e ambizioso Ottaviano di prendere le redini della Repubblica.
Canfora ci chiarisce le posizioni delle varie forze politiche in lotta per la supremazia, proponendoci un esame attento di documenti dell’epoca che ricostruiscono il quadro delle relazioni tra le fazioni. Grazie all’analisi di questi documenti, possiamo farci un’idea di come ognuno si muoveva per promuovere le rispettive idee. Quale sia la verità ultima è difficile dirlo, secondo l’autore è estremamente importante il momento successivo alla battaglia, in quanto più di un elemento fa credere che i due consoli non morirono per fatalità. Forse non ci sono abbastanza prove per accusare senza ombra di dubbio chi ha guadagnato di più da queste scomparse, ma è certo che limitarci a credere alla versione dei fatti tramandati nel Res Gestae Divi Augusti è quanto meno limitante.
Nicolò dell’Abate. La Battaglia fra gli eserciti di Antonio e di Ottaviano, Affresco. Modena, Palazzo Comunale 1546 http://www.comune.modena.it/
Come in un giallo, per tentare di chiarire i risvolti di ogni affermazione, dovremmo affidarci al migliore dei detective moderni che risolverebbe brillantemente il caso, ed in soli cinquanta minuti più qualche pausa pubblicitaria! La realtà però è un’altra, il caso è molto complesso e non basterà questa lettura per chiarire il mistero fino in fondo; di certo “La prima marcia su Roma” è un buon punto di partenza per immergerci nel complesso sistema politico romano e percepire quanto difficile fosse muoversi per ottenere il potere e mantenerlo saldo nelle proprie mani.
Se qualcuno volesse fare un altro passo per avvicinarsi alla verità, potrebbe affidarsi all’esperto Ronald Syme, autore de “La rivoluzione romana”, un libro pubblicato nel 1939 e considerato ancor oggi la pietra miliare per lo studio dell’epoca di transizione dalla Repubblica al Principato; forse Syme non sarà all’altezza del vostro investigatore preferito, ma di certo è un buon conoscitore dell’argomento. Scrivendo questo articolo ho scoperto con piacere che “La rivoluzione romana” è stato rieditato da Einaudi; purtroppo, quando studiavo questi argomenti, fui costretto a cercarlo in biblioteca; finalmente, potrò procurarmi una copia per rileggerla e violarne le pagine con le mie note. Consiglio questa lettura: vi assicuro che la troverete davvero interessante.
All’età di diciannove anni, di mia iniziativa e a mie spese […] liberai la repubblica dal dominio dei faziosi. Per ricompensarmi, il Senato […] mi cooptò nel suo ordine […] e mi riconobbe l’imperium. […] Il Senato inoltre mi ordinò di provvedere all’emergenza […] collaborando coi consoli in carica. […] Essendo caduti in guerra entrambi i consoli, il popolo mi elesse console, nonché “triumviro per la riforma dello Stato”. (Res Gestae Divi Augusti)
Chiamate Senato quello che in realtà non è che l’accampamento di Pompeo. […] Avete attirato i soldati, miei e veterani, facendogli credere che si andava a punire gli uccisori di Cesare, e invece […] li fate marciare contro di me […]. E allora vi chiedo di valutare: è più utile per la nostra parte politica vendicare la morte di Trebonio o quella di Cesare? E’ più utile che noi ci combattiamo a vicenda […] o che ci mettiamo d’accordo per non fare il gioco degli avversari? […] Un tale spettacolo finora la fortuna ha voluto risparmiarcelo: due schiere dello stesso esercito che si combattono tra loro. […] Io sono disposto a dimenticare le offese fattemi da chi appartiene alla mia stessa parte politica a patto che essi […] siano sul serio pronti a vendicare, insieme a noi, la morte di Cesare. (Lettera di Antonio del 15/20 marzo 43 a.C. a Irzio e Ottaviano)
Ottaviano diede inizio alla “marcia su Roma” […] si astenne dall’entrare in città con uomini in arme in quanto si dovevano garantire ‘libere elezioni’. Il popolo lo elesse console assieme a Q. Pedio […]. Il neoeletto entrava in Roma per sacrificare agli dèi immortali: nel cielo furono visti dodici avvoltoi, il presagio di Romolo, il fondatore di Roma. Era il 19 agosto e Ottaviano non aveva ancora vent’anni.
(Luciano, Canfora, La prima marcia su Roma, Laterza, 2007, pp. 5-6, 36-37-38, 74-77-78)
Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner
E’ una storia che inizia più o meno così: andremo al faro? Sì, certo. No, il tempo non promette nulla di buono. Il meteo, purtroppo, non permetterà di andare in gita… poi, prima che si ripresentino le condizioni per scoprire i segreti di quel faro all’orizzonte, prima del bel tempo, arrivano forti venti di guerra, così, quando finalmente si giungerà al faro, saranno passati molti anni… allora, tutto sarà diverso. La storia inizia poco prima dello scoppiare della “grande guerra”, e si svolge nell’arco di dieci anni, terminando con lo sbarco al faro.
Godrevy Lighthouse – St Ives http://carolinegillpoetry.blogspot.it/2012/08/fiesta-time-13-book-lovers-day.html
Poche miglia separano i protagonisti dal faro all’orizzonte. Eppure, si rivelerà irraggiungibile; Woolf ci porterà al faro, ma ciò accadrà dopo un decennio, dopo aver sondato in profondità tutti i personaggi che vivono nella casa di campagna in cui ci si riposa nel periodo estivo.
Si tratta di un’opera innovativa, dove l’autrice si propone di sostituire l’introspezione all’azione. Il racconto mette a nudo la parte più intima di ognuno dei personaggi; Woolf, svelando i percorsi mentali dei protagonisti, ci permette di riflettere sulla loro esistenza, e di conseguenza anche sulla nostra.
I personaggi non si limitano ad agire o a parlare; interagiscono tra loro come è solito accada nei romanzi e nella vita reale, ma al contempo, in “Gita al faro”, rivelano al lettore i propri pensieri, mettendosi a nudo così da diventare più che esseri di finzione.
Le descrizioni sono minuziose e ogni parola di Woolf, come in un quadro sapientemente dipinto, caratterizza puntualmente l’ambiente in cui la storia si svolge. La prosa dell’autrice è armoniosa, musicale; fatico a descrivere la sensazione che mi trasmetteva, forse la cosa più semplice è che leggiate voi stessi ciò che ho riportato qui sotto, così potete farvi un’idea dello stile; di fatto si tratta di brevi brani che esemplificano una costante di quest’opera, che vi cullerà in un ovattato mondo onirico.
tutto era effimero come un arcobaleno
pensò «Com’è fortunata […] Sposa un uomo che ha un orologio d’oro in una custodia di pelle scamosciata!». […] solleticata dall’assurdità del suo pensiero (che fortuna sposarsi con un uomo che ha una custodia di pelle scamosciata per l’orologio), s’avviò con un sorriso sulle labbra verso l’altra stanza […]
E così spente tutte le luci, tramontata la luna, mentre una pioggerellina sottile tamburellava sul tetto, ebbe inizio un diluvio di sconfinata tenebra. Parve quasi che nulla potesse sopravvivere a quel diluvio, a quella profusione di buio […]
[…] disegnare con la fantasia, lontano dalla tela, era tutt’altra cosa che prendere in mano il pennello e tracciare il primo segno. […] Da dove cominciare? − era questo il problema: in che punto tracciare il primo segno? Tracciare una linea sulla tela significava impegnarsi a correre rischi innumerevoli, a prendere decisioni frequenti e irrevocabili.
[…] «tu» e «io» e «lei» siamo effimeri, destinati a scomparire; nulla resta, tutto cambia, tranne le parole, tranne la pittura […]
Era così dunque […] quel Faro che avevano visto per tutti quegli anni di là della baia: una spoglia torre su un nudo scoglio.
(Virginia, Woolf, Gita al faro, in Le magnifiche 7 signore della letteratura inglese, Newton Compton, 2013, pp. 1121, 1181, 1186, 1205, 1218, 1231)
Lazaro è costretto a raccontare a una imprecisata Vostra Signoria la sua vita. L’autore lascia che sia lo stesso Lazaro a parlare; ci troviamo così a leggere la dettagliata relazione delle vicende che hanno caratterizzato la sua esistenza. Si tratta della storia di un povero emarginato che fa di tutto per sopravvivere, adattandosi alla società che tende a emarginare figure come la sua; imparerà in fretta come gira il mondo, adattandosi ad esso come meglio può. Lo sfortunato protagonista si troverà spesso obbligato al furto e alla menzogna, a ingegnarsi per ottenere quel poco che gli basti a frenare la fame.
Francisco Goya, El Lazarillo de Tormes – 1819 http://www.wikiart.org/en/francisco-goya/el-lazarillo-de-tormes-1819
Un racconto molto divertente, non è certo facile sopravvivere se si è ancora bambini e l’unica figura di riferimento è un cieco vagabondo che ti porta con sé al solo scopo di sfruttarti. Purtroppo, non basterà liberarsi del cieco per porre fine alla miseria; infatti, non lo aiuterà molto diventare il servo di tanti altri strani personaggi che affollano lo strampalato mondo di Lazaro. Ma di una cosa ci renderemo conto, Lazaro non si lascerà mai abbattere dalle avversità, e dopo tanti anni di sofferenze e ristrettezze, finalmente, riuscirà a realizzare il suo sogno.
La vita di questo ragazzo non è propriamente costruttiva, ipocritamente è giusto nascondere l’esistenza, vera o inventata, di un giovane così. Ecco perché la diffusione dell’opera è stata ostacolata dall’Inquisizione, e forse per questo motivo l’autore non ha voluto far conoscere la sua identità.
Consiglio la lettura dell’introduzione, il “Lazarillo de Tormes” è un’opera molto importante, innovativa e complessa. Mi spiego meglio, possiamo divertirci leggendola senza tanto filosofeggiare, infatti, offre molte scene esilaranti e comiche; e già così è un libro che val la pena di leggere. Se facciamo attenzione, però, ci renderemo conto dell’abilità dell’autore che non ha scritto una semplice commedia divertente; il racconto esprime con grande ironia la denuncia di un mondo in cui i detentori del potere non sono per niente migliori di chi, come il protagonista, lotta “eroicamente” ogni giorno per sopravvivere alla fame. Si tratta di un libro sempre attuale, che fa riflettere sui diritti negati a chi non ha l’opportunità di vivere dignitosamente per colpa di un sistema escludente.
Sta diventando un’abitudine quella di indicare le trasposizioni cinematografiche delle opere che descrivo; spero di non spingere alcuni di voi a guardare i film anziché leggere i romanzi (se usate questa scorciatoia, peggio per voi!). Vi induco in tentazione, siate forti; ecco due esempi:
“I picari” di Mario Monicelli (1987)
Questo film non è la trasposizione dell’opera, anzi se ne distacca molto, ma val la pena di vederlo.
“Le avventure e gli amori di Lazaro De Tormes” di Fernando Fernán Gómez, José Luis García Sánchez (2001)
Il film è in linea con il testo originale, anche se molti particolari non corrispondono.
Uscimmo da Salamanca e arrivati al ponte, proprio all’imboccatura, dove c’è un animale di pietra che ha quasi forma di un toro, il cieco mi ordinò di accostarmi all’animale, e quando fui lì mi disse: “Lazaro, avvicina l’orecchio al toro e ci sentirai dentro un gran rumore”. Io ingenuamente avvicinai l’orecchio, credendo che le cose stessero davvero così. Quello, appena si accorse che avevo la testa contro la pietra, mi diede un colpo secco con la mano e mi fece dare una gran capata contro quell’accidenti di toro, che più di tre giorni mi durò il dolore della cornata. E mi disse: “Sciocco, impara: il ragazzo di un cieco deve saperne una più del diavolo”. E si divertì molto dello scherzo.
Torro Verraco. Ponte romano di Salamanca http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Torro-Verraco_del_Puente_de_Salamanca.JPG By Tamorlan
(Anonimo, Lazarillo de Tormes, Feltrinelli, 2009, p. 34)
Screenshot del film ‘Norwegian Wood’ di Tran Anh Hung
Durante un viaggio, a Tōru Watanabe, il protagonista del libro ormai trentasettenne, capita di riascoltare “Norwegian Wood” dei Beatles.
Esercizio 1:
riascoltate “Norwegian Wood” dei Beatles.
Ciò lo riporta a quando aveva vent’anni, risvegliando il bisogno di rievocare il passato, prima che la nebbia offuschi la memoria; infatti, ricorda le parole che gli avevano strappato quella promessa: “Non ti dimenticare di me. Ricordati sempre che sono esistita”. Inizia così l’intenso racconto degli eventi che hanno animato il suo passaggio dalla giovinezza all’età adulta. E sarà direttamente la voce di Tōru a raccontarci ciò che accadde, e a descriverci i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue aspirazioni. Senza censure, senza reticenze, onestamente, con la consapevolezza di dover fermare nella carta quell’intenso groviglio di ricordi che altrimenti sfumerebbero… e così scrive e si racconta… ne esce una storia vera, avvincente e piena di sentimento. Una storia d’amore, una storia di un giovane che cresce ed affronta la vita con coraggio, consapevole di poter sbagliare ma con il desiderio di lottare per fare del suo meglio in ogni occasione, chiedendosi sempre se ci è riuscito.
Non intendo addentrarmi nella storia, la divorerete come ho fatto io; si tratta di un libro che non riuscirete facilmente a riporre sul comodino. Ritengo non abbia senso svelarvi particolari o episodi che al momento opportuno vi spiegherà Tōru.
Avrete notato che sono molto laconico; con questo libro lo sarò ancor di più. E’ davvero difficile condensare in alcune linee tutto ciò che passa dopo aver letto questo bel libro.
Haruki Murakami ci fa conoscere in profondità Tōru e, per suo tramite, riesce a dare un incredibile spessore anche agli altri personaggi di questo libro. Mi piace il suo stile, nonostante sia un libro per certi versi molto duro, riesce con grande facilità ad alleggerire i temi che affronta in maniera divertente. Tōru, con il suo singolare modo di affrontare il mondo che lo circonda, ci porta a spasso per un Giappone diverso da come lo immaginiamo… insomma qui si va oltre “Madama Butterfly”. E le micro-storie che fanno da contorno al tema principale, la storia d’amore di Tōru, non appesantiscono il romanzo, anzi lo fanno respirare meglio, rendendo il racconto più vero.
Come al solito, rigorosamente dopo la lettura, vi invito alla visione della trasposizione cinematografica. Si tratta di “Norwegian Wood” di Tran Anh Hung, buona visione. Un’avvertenza, il film è molto bello, ma ogni scena perde d’intensità rispetto al testo; forse è proprio una scelta del regista, quella di alleggerire, di rendere meno forte e “viva” la storia del romanzo o, semplicemente, è impossibile ricreare le pagine di Murakami. In ogni caso è ammirevole il lavoro fatto, l’angoscia che si percepisce in alcuni momenti del film è toccante.
Quando l’aereo ebbe completato l’atterraggio, la scritta “vietato fumare” si spense e dagli altoparlanti sul soffitto cominciò a diffondersi a basso volume una musica di sottofondo. Era Norwegian Wood dei Beatles […] e come sempre mi bastò riconoscerne la melodia per sentirmi turbato. […] Anche adesso che sono passati diciott’anni, riesco ancora a ricordare chiaramente quel prato e il paesaggio intorno. […] Strana cosa la memoria. Nel momento in cui mi trovavo realmente lì, non mi rendevo conto del paesaggio. […] Eppure adesso la prima cosa che affiora nella mia mente è proprio quel prato tra le montagne.
Quando sento questa canzone a volte divento tremendamente triste, non so perché ma ho la sensazione di vagare in una foresta profonda […] come se fossi sola, al freddo e al buio, e nessuno venisse ad aiutarmi.
(Haruki, Murakami, Norwegian Wood, Einaudi, 2013, pp. 3-4-5, 144)
Gustav Aschenbach, uno scrittore di Monaco, sente il bisogno di viaggiare, di fuggire dall’opera, dal luogo giornaliero di quel servizio rigido, freddo e appassionato; parte, senza una meta prestabilita e si ritrova a Venezia. Qui si lascia sedurre dalla bellezza di un giovane ragazzo, e perdendo ogni forma di autocontrollo si lascia andare ad una passione insana e pericolosa; nonostante il rinforzare delle voci che sembrano confermare la presenza di una terribile epidemia, decide di restare in città, ciò sconvolgerà la sua vita, fino all’estrema conseguenza.
Canaletto (Giovanni Antonio Canal) – Veduta del bacino di San Marco dalla punta della Dogana http://www.wga.hu/art/c/canalett/4/canal410.jpg
Mann non avrebbe potuto descrivere meglio la degenerazione di un uomo distinto, preciso e determinato. Che cosa induce a voltar le spalle alla società, al successo, al senso del pudore, ad elementari regole che il protagonista, peraltro, conosce bene? Soltanto un giovanotto che passa le vacanze estive al lido? Non può essere, dev’esserci un trucco: forse Mann riteneva troppo banale che il suo protagonista potesse decidere di lascarsi andare solo perché, ad un certo punto della sua vita, non riteneva più così importante “persistere”, e qui subentrerebbe la figura del ragazzo che sublima l’ideale di innocenza e bellezza a cui aspira il protagonista, ormai vecchio e consapevole del male che tutto ammorba.
Troppe energie servirebbero per aggrapparsi alla vita e fuggire dal pericolo? Così Aschenbach potrebbe aver pensato di sfidare la morte, giocare con lei, per sentirsi ancora giovane, come quel ragazzo che ammirava… sentirsi fresco e sereno in un ambiente tanto malsano quanto stupefacente. Allora prende il sopravvento il desiderio di annientamento sullo spirito di sopravvivenza, che imporrebbe ben più sagge decisioni. L’epilogo è sì scontato, ma per niente logico: lasciarsi morire a Venezia, consci della sua bellezza ammaliatrice, consapevoli della sua natura beffarda, tremenda incantatrice accattivante che non teme che il suo odore lasci intendere la sua pericolosità.
Forse Aschenbach vuole ascoltare il morboso richiamo del suo inconscio che lo spinge al capolinea, non con casualità ma in un momento preciso della sua vita. Se di passione inammissibile si tratta, il protagonista sente di dover morire con essa, sperando non ne trapeli notizia alcuna, affinché il ricordo di retto uomo di cultura non perda lucentezza.
Un capolavoro può essere scritto in poche pagine. Cosa mi piace di più? Se devo scegliere, le descrizioni di Venezia, città unica… e mortalmente attraente.
Infine, solo e soltanto dopo la lettura, se proprio volete: guardate la trasposizione cinematografica di Luchino Visconti. Si tratta di un buon lavoro, ma vi avverto che è andata perduta la profondità introspettiva dell’opera.
Così la rivedeva, quella stupefacente banchina, quell’abbagliante composizione di fantastici edifici che la Serenissima Repubblica presentava agli sguardi riverenti dei navigatori che si avvicinavano: l’aerea magnificenza del Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri, le colonne sulla riva col Leone e col Santo, il fastoso aggetto del tempio favoloso e il traforo della Porta dell’Orologio coi Mori, e contemplando si disse che arrivare a Venezia dalla terraferma era come entrare in un palazzo dalla porta di servizio, e che solo per nave, dall’alto mare, come aveva fatto lui questa volta, bisognava giungere nella città più inverosimile del mondo.
Rimango, pensò Aschenbach. Dove trovo meglio di qui? E con le mani intrecciate in grembo lasciò errare i suoi occhi sulle lontananze del mare, e il suo sguardo fuggire, dissolversi, spezzarsi nella caligine monotona dello spazio deserto. Amava il mare per ragioni profonde: l’esigenza di riposo dell’artista costretto a una dura fatica, che, davanti all’esigente multiformità dei fenomeni aspira alla semplicità, all’immensità; la tendenza vietata, contraddittoria rispetto alla sua missione e appunto per questo irresistibile, verso l’inarticolato, lo smisurato, l’eterno, il nulla. Avere pace nella perfezione è il sogno di chi si affatica per giungere all’eccellenza; e non è forse il nulla una forma di perfezione?
I gradini marmorei di una chiesa scendevano nell’acqua; un mendicante accovacciato sui gradini tendeva il cappello gridando la sua miseria e mostrando il bianco degli occhi come se fosse stato cieco; un antiquario invitava con gesti servili dalla sua spelonca il passante a fermarsi, nella speranza d’imbrogliarlo. Questa era Venezia, la bellezza lusingatrice e ambigua – quella città, a metà favola a metà trabocchetto per i forestieri, nella cui aria corrotta l’arte aveva avuto in passato un esuberante rigoglio, e i musici avevano composto suadenti melodie capaci di rapire voluttuosamente.
(Thomas, Mann, La morte a venezia, Feltrinelli, 2003, pp. 20, 30, 52)
anch’egli ululò e il branco gli si strinse intorno
E’ la storia di Buck, un cane che viveva agiatamente in una villa californiana; catapultato in Alaska, è costretto a diventare un cane da slitta, e una volta libero dai vincoli che lo legavano all’uomo, torna a vivere insieme ai suoi antenati, i lupi.
Un viaggio dall’inconsapevolezza alla piena riscoperta del proprio essere. La regressione di un cane alla vita selvaggia è allo stesso tempo un processo evolutivo che ripone l’animale, ammaestrato e ammansito, in comunione con la natura e le sue leggi.
Gli uomini, suoi padroni, poi schiavisti, infine compagni leali di vita, perderanno il ruolo di guida; Buck riprenderà possesso del suo destino e infine troverà la sua strada, non per questo dimenticando il passato.
Il concetto più interessante è la visione di London della natura. La sopravvivenza non è per nulla automatica, estremamente difficile in un ambiente ostile. L’ambiente antropizzato e pacifico del sud differisce totalmente dal selvaggio nord; più volte London sottolinea come le leggi del sud non siano applicabili al nord, dove la forza bruta prevale, ma anche i sentimenti non per forza violenti possono trovare spazio, e romanticamente London sa dar spazio anche allo smoderato amore che può instaurarsi tra cane e padrone (e che Buck non aveva conosciuto nella casa in cui era vissuto prima di finire al nord).
Andy Richards – White Pass, Near the Top http://lightcentric.files.wordpress.com/2010/06/white-pass-railroad-skagway-alaska-052620100385.jpg
“Il richiamo della foresta” evoca sentimenti forti, possiamo provare a descriverli, ma è come voler sperimentare una reazione chimica senza osservarla in laboratorio. Quindi leggiamolo, per sperimentare l’amore e altresì quel vortice di rabbia disperata che è l’istinto di vendetta (Maurizio Ascari).
Ho trovato molto interessante l’analisi di Ascari, che potete trovare nell’edizione che ho letto io (Marsilio). Credo che, aldilà del pensiero personale di London, “il richiamo della foresta” sia importante per riflettere sull’uomo e il suo rapporto con la natura, visto che ci dimentichiamo troppo spesso di esserne parte integrante. Un appunto, non vorrei si cadesse nell’errore opposto, cioè quello di abbracciare il determinismo biologico tanto fortemente da annullare quel bel principio, l’umanità, che ci ha permesso di costruire delle società in cui val la pena di vivere.
Albert Bierstadt – Call of the Wild http://uploads3.wikiart.org/images/albert-bierstadt/call-of-the-wild.jpg
Buck era inesorabile. La misericordia era qualcosa di riservato ai climi più miti. Si apprestò all’assalto finale.
Buck non conosceva gioia più grande di quel rozzo abbraccio e delle ingiurie che udiva mormorare, e ogni volta che veniva scosso avanti e indietro sembrava che il cuore gli uscisse dal petto, tanto era in estasi.
Da allora in poi, notte e giorno, Buck non abbondonò più la preda […] né concesse all’alce ferito l’opportunità di estinguere la sua sete ardente […] l’alce prese a fermarsi per lunghi periodi, col naso a terra e le orecchie tristemente afflosciate […] al termine del quarto giorno, abbatté il grande alce.
(Jack, London, Il richiamo della foresta, Marsilio, 2003, pp. 68 – 94 – 117,118)