Banana Yoshimoto – Kitchen

 Perché amo

quanto ha a che fare con

la cucina fino a questo punto?

al centro di una cucina tutto ricomincia

Mikage, la protagonista, è una ragazza sola; il racconto narra il suo percorso per trovare la serenità. L’autrice ci accompagna alla scoperta del microcosmo di Mikage, dove elementi apparentemente scombinati, e un’esistenza molto difficile, si stabilizzano in orbite ordinate in cui, nonostante l’ostilità di ciò che la circonda, a vincere è il suo desiderio di felicità.

Lhote Andr - Femme à la cuisine
Femme à la cuisine, Lhote Andr, 1935–40, Olio du tela

Per l’equilibrio della ragazza, diverrà centrale il rapporto con la cucina, sia come luogo in cui sentirsi al sicuro, sia come opportunità di svago e motivo di realizzazione. L’ambiente domestico assume così una valenza protettiva, diviene un ambiente favorevole alla rinascita e alla realizzazione interiore.

L’autrice riesce a dare grande spessore ai personaggi, ed in particolare alla protagonista; ne risulta che anche particolari, che noi potremmo ritenere insignificanti, acquisiscano un’importanza inaspettata; forse, dopo la lettura di questo breve racconto, potremo trovare nei piccoli gesti quotidiani, che svolgiamo sovrappensiero, nuovi stimoli per apprezzare, come Mikage, la bellezza delle piccole cose.

Il testo è leggero, preciso e facile da leggere, si riescono a sentire i rumori e a vedere le luci descritte minuziosamente da Yoshimoto. In una parola: bellissimo. Grazie a chi mi ha fatto conoscere Banana Yoshimoto.

progetto abbinamenti

quando: notte con grande luna

dove: ai piedi del frigorifero

piatto: anguilla ai ferri

vino: Bosco Eliceo Fortana

drink: Long Island Iced Tea

 

Amavo il divano di casa Tanabe quasi quanto la loro cucina. Dormirci sopra era un piacere. Mi addormentavo sempre tranquilla, cullata dal respiro delle piante, e avvertendo la presenza del panorama notturno dietro le tende.

 Perché amo quanto ha a che fare con la cucina fino a questo punto? E’ strano. Per me è come ritrovare un’aspirazione lontana, incisa nella memoria dello spirito. Stando in piedi al centro di una cucina tutto ricomincia da capo e qualcosa ritorna.

Mentre lavavo la gran mole dei piatti facendo scorrere piano l’acqua per non svegliare Yūichi, cominciai a piangere senza freno. Naturalmente non era il pensiero di dover lavare quella quantità enorme di piatti, ma perché mi sentivo completamente abbandonata, persa, nella desolata solitudine di quella notte.

[…] gran parte della storia è incisa nei sensi. E cose di nessuna importanza, insostituibili, ritornano così all’improvviso, in un caffè d’inverno.

(Banana, Yoshimoto, Kitchen, Feltrinelli, 2014, pp. 24, 55, 63, 71)

Banana Yoshimoto - Kitchen

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Thomas Mann – La morte a Venezia

voglia di viaggiare

esaltata fino alla passione

un’avventura così inammissibile

per quanto ci sforziamo, l’abisso ci attira

Gustav Aschenbach, uno scrittore di Monaco, sente il bisogno di viaggiare, di fuggire dall’opera, dal luogo giornaliero di quel servizio rigido, freddo e appassionato; parte, senza una meta prestabilita e si ritrova a Venezia. Qui si lascia sedurre dalla bellezza di un giovane ragazzo, e perdendo ogni forma di autocontrollo si lascia andare ad una passione insana e pericolosa; nonostante il rinforzare delle voci che sembrano confermare la presenza di una terribile epidemia, decide di restare in città, ciò sconvolgerà la sua vita, fino all’estrema conseguenza.

Canaletto (Giovanni Antonio Canal) - Veduta del bacino di San Marco dalla punta della Dogana
Canaletto (Giovanni Antonio Canal) – Veduta del bacino di San Marco dalla punta della Dogana http://www.wga.hu/art/c/canalett/4/canal410.jpg

Mann non avrebbe potuto descrivere meglio la degenerazione di un uomo distinto, preciso e determinato. Che cosa induce a voltar le spalle alla società, al successo, al senso del pudore, ad elementari regole che il protagonista, peraltro, conosce bene? Soltanto un giovanotto che passa le vacanze estive al lido? Non può essere, dev’esserci un trucco: forse Mann riteneva troppo banale che il suo protagonista potesse decidere di lascarsi andare solo perché, ad un certo punto della sua vita, non riteneva più così importante “persistere”, e qui subentrerebbe la figura del ragazzo che sublima l’ideale di innocenza e bellezza a cui aspira il protagonista, ormai vecchio e consapevole del male che tutto ammorba.

Troppe energie servirebbero per aggrapparsi alla vita e fuggire dal pericolo? Così Aschenbach potrebbe aver pensato di sfidare la morte, giocare con lei, per sentirsi ancora giovane, come quel ragazzo che ammirava… sentirsi fresco e sereno in un ambiente tanto malsano quanto stupefacente. Allora prende il sopravvento il desiderio di annientamento sullo spirito di sopravvivenza, che imporrebbe ben più sagge decisioni. L’epilogo è sì scontato, ma per niente logico: lasciarsi morire a Venezia, consci della sua bellezza ammaliatrice, consapevoli della sua natura beffarda, tremenda incantatrice accattivante che non teme che il suo odore lasci intendere la sua pericolosità.

Forse Aschenbach vuole ascoltare il morboso richiamo del suo inconscio che lo spinge al capolinea, non con casualità ma in un momento preciso della sua vita. Se di passione inammissibile si tratta, il protagonista sente di dover morire con essa, sperando non ne trapeli notizia alcuna, affinché il ricordo di retto uomo di cultura non perda lucentezza.

Un capolavoro può essere scritto in poche pagine. Cosa mi piace di più? Se devo scegliere, le descrizioni di Venezia, città unica… e mortalmente attraente.


Infine, solo e soltanto dopo la lettura, se proprio volete: guardate la  trasposizione cinematografica di Luchino Visconti. Si tratta di un buon lavoro, ma vi avverto che è andata perduta la profondità introspettiva dell’opera.

http://www.luchinovisconti.net/visconti_sc_film/morte_venezia.htm

Così la rivedeva, quella stupefacente banchina, quell’abbagliante composizione di fantastici edifici che la Serenissima Repubblica presentava agli sguardi riverenti dei navigatori che si avvicinavano: l’aerea magnificenza del Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri, le colonne sulla riva col Leone e col Santo, il fastoso aggetto del tempio favoloso e il traforo della Porta dell’Orologio coi Mori, e contemplando si disse che arrivare a Venezia dalla terraferma era come entrare in un palazzo dalla porta di servizio, e che solo per nave, dall’alto mare, come aveva fatto lui questa volta, bisognava giungere nella città più inverosimile del mondo.

Rimango, pensò Aschenbach. Dove trovo meglio di qui? E con le mani intrecciate in grembo lasciò errare i suoi occhi sulle lontananze del mare, e il suo sguardo fuggire, dissolversi, spezzarsi nella caligine monotona dello spazio deserto. Amava il mare per ragioni profonde: l’esigenza di riposo dell’artista costretto a una dura fatica, che, davanti all’esigente multiformità dei fenomeni aspira alla semplicità, all’immensità; la tendenza vietata, contraddittoria rispetto alla sua missione e appunto per questo irresistibile, verso l’inarticolato, lo smisurato, l’eterno, il nulla. Avere pace nella perfezione è il sogno di chi si affatica per giungere all’eccellenza; e non è forse il nulla una forma di perfezione?

I gradini marmorei di una chiesa scendevano nell’acqua; un mendicante accovacciato sui gradini tendeva il cappello gridando la sua miseria e mostrando il bianco degli occhi come se fosse stato cieco; un antiquario invitava con gesti servili dalla sua spelonca il passante a fermarsi, nella speranza d’imbrogliarlo. Questa era Venezia, la bellezza lusingatrice e ambigua – quella città, a metà favola a metà trabocchetto per i forestieri, nella cui aria corrotta l’arte aveva avuto in passato un esuberante rigoglio, e i musici avevano composto suadenti melodie capaci di rapire voluttuosamente.

(Thomas, Mann, La morte a venezia, Feltrinelli, 2003, pp. 20, 30, 52)

Thomas Mann - La morte a Venezia

 

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