Haruki Murakami – Norwegian Wood – ノルウェイの森

riesco ancora a ricordare

mi bastò la melodia

all’improvviso mi era venuta malinconia

quello che mi resta è solo lo sfondo

un paesaggio senza figure

Screenshot del film ‘Norwegian Wood’ di Tran Anh Hung
Screenshot del film ‘Norwegian Wood’ di Tran Anh Hung

Durante un viaggio, a Tōru Watanabe, il protagonista del libro ormai trentasettenne, capita di riascoltare “Norwegian Wood” dei Beatles.

Esercizio 1:

riascoltate “Norwegian Wood” dei Beatles.

Ciò lo riporta a quando aveva vent’anni, risvegliando il bisogno di rievocare il passato, prima che la nebbia offuschi la memoria; infatti, ricorda le parole che gli avevano strappato quella promessa: “Non ti dimenticare di me. Ricordati sempre che sono esistita”. Inizia così l’intenso racconto degli eventi che hanno animato il suo passaggio dalla giovinezza all’età adulta. E sarà direttamente la voce di Tōru a raccontarci ciò che accadde, e a descriverci i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue aspirazioni. Senza censure, senza reticenze, onestamente, con la consapevolezza di dover fermare nella carta quell’intenso groviglio di ricordi che altrimenti sfumerebbero… e così scrive e si racconta… ne esce una storia vera, avvincente e piena di sentimento. Una storia d’amore, una storia di un giovane che cresce ed affronta la vita con coraggio, consapevole di poter sbagliare ma con il desiderio di lottare per fare del suo meglio in ogni occasione, chiedendosi sempre se ci è riuscito.

Non intendo addentrarmi nella storia, la divorerete come ho fatto io; si tratta di un libro che non riuscirete facilmente a riporre sul comodino. Ritengo non abbia senso svelarvi particolari o episodi che al momento opportuno vi spiegherà Tōru.

Avrete notato che sono molto laconico; con questo libro lo sarò ancor di più. E’ davvero difficile condensare in alcune linee tutto ciò che passa dopo aver letto questo bel libro.

Haruki Murakami ci fa conoscere in profondità Tōru e, per suo tramite, riesce a dare un incredibile spessore anche agli altri personaggi di questo libro. Mi piace il suo stile, nonostante sia un libro per certi versi molto duro, riesce con grande facilità ad alleggerire i temi che affronta in maniera divertente. Tōru, con il suo singolare modo di affrontare il mondo che lo circonda, ci porta a spasso per un Giappone diverso da come lo immaginiamo… insomma qui si va oltre “Madama Butterfly”. E le micro-storie che fanno da contorno al tema principale, la storia d’amore di Tōru, non appesantiscono il romanzo, anzi lo fanno respirare meglio, rendendo il racconto più vero.


Come al solito, rigorosamente dopo la lettura, vi invito alla visione della trasposizione cinematografica. Si tratta di “Norwegian Wood” di Tran Anh Hung, buona visione. Un’avvertenza, il film è molto bello, ma ogni scena perde d’intensità rispetto al testo; forse è proprio una scelta del regista, quella di alleggerire, di rendere meno forte e “viva” la storia del romanzo o, semplicemente, è impossibile ricreare le pagine di Murakami. In ogni caso è ammirevole il lavoro fatto, l’angoscia che si percepisce in alcuni momenti del film è toccante.

Quando l’aereo ebbe completato l’atterraggio, la scritta “vietato fumare” si spense e dagli altoparlanti sul soffitto cominciò a diffondersi a basso volume una musica di sottofondo. Era Norwegian Wood dei Beatles […] e come sempre mi bastò riconoscerne la melodia per sentirmi turbato. […] Anche adesso che sono passati diciott’anni, riesco ancora a ricordare chiaramente quel prato e il paesaggio intorno. […] Strana cosa la memoria. Nel momento in cui mi trovavo realmente lì, non mi rendevo conto del paesaggio. […] Eppure adesso la prima cosa che affiora nella mia mente è proprio quel prato tra le montagne.

Quando sento questa canzone a volte divento tremendamente triste, non so perché ma ho la sensazione di vagare in una foresta profonda […] come se fossi sola, al freddo e al buio, e nessuno venisse ad aiutarmi.

(Haruki, Murakami, Norwegian Wood, Einaudi, 2013, pp. 3-4-5, 144)

 

Haruki Murakami - Norwegian Wood

 

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Thomas Mann – La morte a Venezia

voglia di viaggiare

esaltata fino alla passione

un’avventura così inammissibile

per quanto ci sforziamo, l’abisso ci attira

Gustav Aschenbach, uno scrittore di Monaco, sente il bisogno di viaggiare, di fuggire dall’opera, dal luogo giornaliero di quel servizio rigido, freddo e appassionato; parte, senza una meta prestabilita e si ritrova a Venezia. Qui si lascia sedurre dalla bellezza di un giovane ragazzo, e perdendo ogni forma di autocontrollo si lascia andare ad una passione insana e pericolosa; nonostante il rinforzare delle voci che sembrano confermare la presenza di una terribile epidemia, decide di restare in città, ciò sconvolgerà la sua vita, fino all’estrema conseguenza.

Canaletto (Giovanni Antonio Canal) - Veduta del bacino di San Marco dalla punta della Dogana
Canaletto (Giovanni Antonio Canal) – Veduta del bacino di San Marco dalla punta della Dogana http://www.wga.hu/art/c/canalett/4/canal410.jpg

Mann non avrebbe potuto descrivere meglio la degenerazione di un uomo distinto, preciso e determinato. Che cosa induce a voltar le spalle alla società, al successo, al senso del pudore, ad elementari regole che il protagonista, peraltro, conosce bene? Soltanto un giovanotto che passa le vacanze estive al lido? Non può essere, dev’esserci un trucco: forse Mann riteneva troppo banale che il suo protagonista potesse decidere di lascarsi andare solo perché, ad un certo punto della sua vita, non riteneva più così importante “persistere”, e qui subentrerebbe la figura del ragazzo che sublima l’ideale di innocenza e bellezza a cui aspira il protagonista, ormai vecchio e consapevole del male che tutto ammorba.

Troppe energie servirebbero per aggrapparsi alla vita e fuggire dal pericolo? Così Aschenbach potrebbe aver pensato di sfidare la morte, giocare con lei, per sentirsi ancora giovane, come quel ragazzo che ammirava… sentirsi fresco e sereno in un ambiente tanto malsano quanto stupefacente. Allora prende il sopravvento il desiderio di annientamento sullo spirito di sopravvivenza, che imporrebbe ben più sagge decisioni. L’epilogo è sì scontato, ma per niente logico: lasciarsi morire a Venezia, consci della sua bellezza ammaliatrice, consapevoli della sua natura beffarda, tremenda incantatrice accattivante che non teme che il suo odore lasci intendere la sua pericolosità.

Forse Aschenbach vuole ascoltare il morboso richiamo del suo inconscio che lo spinge al capolinea, non con casualità ma in un momento preciso della sua vita. Se di passione inammissibile si tratta, il protagonista sente di dover morire con essa, sperando non ne trapeli notizia alcuna, affinché il ricordo di retto uomo di cultura non perda lucentezza.

Un capolavoro può essere scritto in poche pagine. Cosa mi piace di più? Se devo scegliere, le descrizioni di Venezia, città unica… e mortalmente attraente.


Infine, solo e soltanto dopo la lettura, se proprio volete: guardate la  trasposizione cinematografica di Luchino Visconti. Si tratta di un buon lavoro, ma vi avverto che è andata perduta la profondità introspettiva dell’opera.

http://www.luchinovisconti.net/visconti_sc_film/morte_venezia.htm

Così la rivedeva, quella stupefacente banchina, quell’abbagliante composizione di fantastici edifici che la Serenissima Repubblica presentava agli sguardi riverenti dei navigatori che si avvicinavano: l’aerea magnificenza del Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri, le colonne sulla riva col Leone e col Santo, il fastoso aggetto del tempio favoloso e il traforo della Porta dell’Orologio coi Mori, e contemplando si disse che arrivare a Venezia dalla terraferma era come entrare in un palazzo dalla porta di servizio, e che solo per nave, dall’alto mare, come aveva fatto lui questa volta, bisognava giungere nella città più inverosimile del mondo.

Rimango, pensò Aschenbach. Dove trovo meglio di qui? E con le mani intrecciate in grembo lasciò errare i suoi occhi sulle lontananze del mare, e il suo sguardo fuggire, dissolversi, spezzarsi nella caligine monotona dello spazio deserto. Amava il mare per ragioni profonde: l’esigenza di riposo dell’artista costretto a una dura fatica, che, davanti all’esigente multiformità dei fenomeni aspira alla semplicità, all’immensità; la tendenza vietata, contraddittoria rispetto alla sua missione e appunto per questo irresistibile, verso l’inarticolato, lo smisurato, l’eterno, il nulla. Avere pace nella perfezione è il sogno di chi si affatica per giungere all’eccellenza; e non è forse il nulla una forma di perfezione?

I gradini marmorei di una chiesa scendevano nell’acqua; un mendicante accovacciato sui gradini tendeva il cappello gridando la sua miseria e mostrando il bianco degli occhi come se fosse stato cieco; un antiquario invitava con gesti servili dalla sua spelonca il passante a fermarsi, nella speranza d’imbrogliarlo. Questa era Venezia, la bellezza lusingatrice e ambigua – quella città, a metà favola a metà trabocchetto per i forestieri, nella cui aria corrotta l’arte aveva avuto in passato un esuberante rigoglio, e i musici avevano composto suadenti melodie capaci di rapire voluttuosamente.

(Thomas, Mann, La morte a venezia, Feltrinelli, 2003, pp. 20, 30, 52)

Thomas Mann - La morte a Venezia

 

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Jack London – Il richiamo della foresta

non era un cane da casa

lottava come due diavoli

anch’egli ululò e il branco gli si strinse intorno

E’ la storia di Buck, un cane che viveva agiatamente in una villa californiana; catapultato in Alaska, è costretto a diventare un cane da slitta, e una volta libero dai vincoli che lo legavano all’uomo, torna a vivere insieme ai suoi antenati, i lupi.

Un viaggio dall’inconsapevolezza alla piena riscoperta del proprio essere. La regressione di un cane alla vita selvaggia è allo stesso tempo un processo evolutivo che ripone l’animale, ammaestrato e ammansito, in comunione con la natura e le sue leggi.

Gli uomini, suoi padroni, poi schiavisti, infine compagni leali di vita, perderanno il ruolo di guida; Buck riprenderà possesso del suo destino e infine troverà la sua strada, non per questo dimenticando il passato.

 Il concetto più interessante è la visione di London della natura. La sopravvivenza non è per nulla automatica, estremamente difficile in un ambiente ostile. L’ambiente antropizzato e pacifico del sud differisce totalmente dal selvaggio nord; più volte London sottolinea come le leggi del sud non siano applicabili al nord, dove la forza bruta prevale, ma anche i sentimenti non per forza violenti possono trovare spazio, e romanticamente London sa dar spazio anche allo smoderato amore che può instaurarsi tra cane e padrone (e che Buck non aveva conosciuto nella casa in cui era vissuto prima di finire al nord).

Andy Richards - White Pass, Near the Top
Andy Richards – White Pass, Near the Top http://lightcentric.files.wordpress.com/2010/06/white-pass-railroad-skagway-alaska-052620100385.jpg

“Il richiamo della foresta” evoca sentimenti forti, possiamo provare a descriverli, ma è come voler sperimentare una reazione chimica senza osservarla in laboratorio. Quindi leggiamolo, per sperimentare l’amore e altresì quel vortice di rabbia disperata che è l’istinto di vendetta (Maurizio Ascari).

Ho trovato molto interessante l’analisi di Ascari, che potete trovare nell’edizione che ho letto io (Marsilio). Credo che, aldilà del pensiero personale di London, “il richiamo della foresta” sia importante per riflettere sull’uomo e il suo rapporto con la natura, visto che ci dimentichiamo troppo spesso di esserne parte integrante. Un appunto, non vorrei si cadesse nell’errore opposto, cioè quello di abbracciare il determinismo biologico tanto fortemente da annullare quel bel principio, l’umanità, che ci ha permesso di costruire delle società in cui val la pena di vivere.

Albert Bierstadt - Call of the Wild
Albert Bierstadt – Call of the Wild http://uploads3.wikiart.org/images/albert-bierstadt/call-of-the-wild.jpg

Buck era inesorabile. La misericordia era qualcosa di riservato ai climi più miti. Si apprestò all’assalto finale.

Buck non conosceva gioia più grande di quel rozzo abbraccio e delle ingiurie che udiva mormorare, e ogni volta che veniva scosso avanti e indietro sembrava che il cuore gli uscisse dal petto, tanto era in estasi.

Da allora in poi, notte e giorno, Buck non abbondonò più la preda […] né concesse all’alce ferito l’opportunità di estinguere la sua sete ardente […] l’alce prese a fermarsi per lunghi periodi, col naso a terra e le orecchie tristemente afflosciate […] al termine del quarto giorno, abbatté il grande alce.

(Jack, London, Il richiamo della foresta, Marsilio, 2003, pp. 68 – 94 – 117,118)

Jack London - Il richiamo della foresta

 

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Samuel Beckett – Aspettando Godot

chi è Godot?

e adesso che facciamo?

aspettiamo Godot

bisogna tornare domani

a far che?

ad aspettare Godot

La storia di un appuntamento. O meglio, l’attesa dell’arrivo di Godot all’appuntamento. Godot sarebbe arrivato al terzo atto? Non lo sapremo mai: Beckett, si è fermato al secondo.

Mentre aspettiamo, accadono molte cose. Il messaggio di Beckett potrebbe essere: non aspettiamo che accadano, diamoci da fare attivamente, per essere padroni del nostro tempo. E qui mi trovo a riflettere sul significato del blog, che vorrebbe invitarvi a leggere per dar senso al tempo. Quella del messaggio dell’autore è solo un’ipotesi, forse non c’è alcun messaggio da recepire, si tratta di puro esercizio di stile (ben riuscito); leggiamo il testo, ne siamo felici e riponiamo il libro. Poi, possiamo congratularci d’aver letto l’opera.

Aspettando godot 2009 Teatro Stabile di Genova
2009 Aspettando Godot Jean-Marc Stehlé, Catherine Rankl | Teatro Stabile di Genova http://www.spazioscenicosrl.it/

Facciamo un esercizio: immaginiamo di leggere “aspettando Godot” mentre attendiamo che un signore di nostra conoscenza arrivi, diciamo che questo signore si chiami “Godot”. Ecco, siamo finiti in un clamoroso circolo vizioso. In attesa di Godot, capitano tante cose; anche se arrivasse Godot succederebbero un sacco di cose. Non arriva, dobbiamo accontentarci di quel che è successo nel mentre… direte: “troppo poco”, e se invece fosse successo tutto il necessario per riempire il vuoto dell’attesa? E’ un modo diverso per darvi un’idea di cosa credo sia “aspettando Godot”, anche se non mi è per nulla chiaro cos’aveva in mente Beckett. Ora l’ho letto una volta, è meglio che io riprenda la lettura di “aspettando Godot” per trovare qualche altro elemento. E’ forse il testo che mi ha confuso di più.

Provate a leggerlo, dicono che sia piaciuto molto e che abbia segnato il nostro tempo. E magari rileggetelo per assicurarvi di non aver perso qualche particolare. E poi… pensavo… vi ho forse fatto perdere tempo? Se avete questa sensazione, leggete questa pagina, troverete una buona analisi di “aspettando Godot”, complimenti a chi l’ha scritta:

 http://www.samuelbeckett.it/?page_id=525

POZZO  […] Anche con la creatura più meschina ci s’istruisce, ci si arricchisce, si apprezza di più la propria fortuna. Perfino voi due (li guarda attentamente, prima uno e poi l’altro, perché si sentano entrambi presi di mira) perfino voi due, dicevo, chi sa se non mi avete dato qualcosa.


VLADIMIRO  Ma non puoi mica andare in giro scalzo.

ESTRAGONE  Gesù l’ha fatto.

VLADIMIRO  Gesù! Cosa vai a tirar fuori! Non vorrai mica paragonarti a lui, per caso?

ESTRAGONE  Mi sono paragonato a lui tutta la vita.

VLADIMIRO  Ma laggiù dove stava lui faceva caldo! C’era bel tempo!

ESTRAGONE  Sì. E si sbrigavano a metterti in croce.

Silenzio.


POZZO  […] Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte.

(Samuel, Beckett, Aspettando Godot, Einaudi, 1982, pp. 40 – 66,67 – 105)

Samuel Beckett - Aspettando Godot

 

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Albert Camus – Lo straniero

il grilletto ha ceduto

quel rumore secco e insieme assordante

ha distrutto l’equilibrio del giorno

quattro colpi secchi sulla porta della sventura

 Meursault, il protagonista, è una persona comune che affronta, come tutti, le vicende della vita. Un giorno l’equilibrio finisce, e si ritrova a dover spiegare a degli sconosciuti le ragioni che lo hanno portato ad uccidere una persona; ciò non è possibile per il solitario Meursault, che vive nel suo mondo senza ammettere interferenze esterne. E’ accaduto, punto e basta: il sole, il caldo, la lama luccicante, era inevitabile dovesse accadere e così è stato. Punto, basta.

LO-STRANIERO4©Marco_Caselli_Nirmal
Lo straniero di Albert Camus – Fondazione Teatro Due, regia Franco Però, con Roberto Abbati, Alessandro Averone, Paola De Crescenzo, Michele de’ Marchi – www.teatrodue.org

Il protagonista non prende in considerazione la possibilità di difendersi… ma attenzione! Non lo fa perché accetta la sentenza e vuole espiare le sue colpe; al contrario, non mostra alcun pentimento, va incontro alla condanna, punto. E se gli si chiede se è dispiaciuto per ciò che ha fatto, Meursault risponde: “piuttosto che dispiacere provavo una certa noia”. Meursault non chiarisce la sua posizione con chi lo sta giudicando, perché non ne ha voglia e perché crede fermamente che sia inutile un qualsiasi dialogo con chi lo vuole giudicare in base a frivoli elementi, che lui trova ridicoli, come ridicola gli sembra la società tutta. L’attenzione con cui sono analizzati particolari del suo comportamento, che lui ritiene assolutamente insignificanti (come il suo rapporto con la madre, che obiettivamente non ha alcuna connessione con il delitto), gli conferma la ragionevolezza del suo agire, e la vicenda dell’omicidio perde d’importanza.

Spesso Meursault ci rivela che avrebbe potuto spiegare o avrebbe potuto chiarire, ma non lo fa perché gli è impossibile “abbassarsi” al livello dei suoi interlocutori, che Meursault  disprezza perché inferiori, incapaci quindi di capirlo.

La vicenda è raccontata in prima persona da Meursault stesso: il lettore ha quindi il privilegio di conoscere anche i pensieri più intimi del protagonista, superando le barriere invalicabili poste contro tutti coloro che lo circondano. Ma, anche con questa intima conoscenza, nonostante il superamento di tante barriere, l’impressione che avremo di Meursault sarà quella di un uomo dannato senza speranza di salvezza.

Breve, intenso, ben scritto. Molto interessante. Arrivano l’estate e il caldo; leggetelo, quando passeggerete lungo una spiaggia assolata vi tornerà sicuramente alla mente questo libro. Un’avvertenza: cortesemente, evitate di portare con voi armi, si sa che il caldo fa brutti scherzi … e poi in un attimo si finisce col bussare alla porta della sventura.


Infine, dopo la lettura, seguite il mio suggerimento: guardate la splendida trasposizione cinematografica di Luchino Visconti.

http://www.luchinovisconti.net/visconti_sc_film/lo_straniero.htm

[…] e lui mi ha guardato in maniera strana, come se gli ispirassi un certo disgusto.

Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio.

(Albert, Camus, Lo straniero, Bompiani, 2010, p. 82 – 150)

Albert Camus - Lo straniero

 

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Augusto Fraschetti – Romolo il fondatore

figlio di Marte

allattato da una lupa

destinato a compiere grandi cose

L’autore ci svela chi fu il fondatore di Roma, partendo dalla sua nascita, proseguendo con la fondazione della città e l’analisi della gestione della stessa, fino alla sua morte, anch’essa avvolta nel mistero.

Nell’introduzione, l’autore precisa subito che “questo non è un libro di storia antica, ma aspirerebbe piuttosto ad essere un libro di antropologia storica del mondo antico”. E segue spiegando che: “a chi scrive non interessa molto se sia realmente esistito un personaggio di nome Romolo che all’evenienza avrebbe fondato una città di nome Roma”. Infatti, il tema che intende trattare l’autore “consiste essenzialmente nella rappresentazione che i Romani di epoca storica hanno fornito della figura del loro fondatore”.

Ci muoviamo nel tempo del mito: Fraschetti cerca di far luce sulle intricate fonti, spesso frammentarie e quasi sempre divergenti; ogni traccia sembra portare in direzioni diverse, confondendoci e meravigliandoci allo stesso tempo. E così Romolo lo potremo credere figlio di Marte e di una schiava, o di una Vestale; e forse anche il discendente di Enea. Insieme al fratello sarà salvato da una lupa, o da una prostituta. E anche per la morte di Romolo esistono teorie differenti: finirà la sua vita ascendendo al cielo, unendosi alle altre divinità; oppure ucciso e fatto a pezzi dai patrizi nel senato.

Ho voluto scrivervi qualcosa su questo libro perché molti anni fa è stato un vero piacere leggerlo; e l’idea di scrivere qui, mi ha “costretto” a riprenderlo, rinnovando il piacere provato. Come avrete già capito, si tratta di un testo ostico, che difficilmente può interessare chi non abbia il desiderio di scontrarsi con una mole incredibile di citazioni e riferimenti a documenti che parlano in dettaglio del nostro Romolo; invece, il discorso è diverso per chi, come me, si è avvicinato alla storia romana per motivi di studio: infatti, trovo che questo sia un testo ben fatto e molto interessante per il suo approccio antropologico.

Figli nati da una Vestale cha ha subìto violenza da un dio o da un “demone” in un bosco dedicato a Marte, sono miracolosamente allattati da una lupa, nutriti anche da un picchio, salvati da un pastore e cresciuti da sua moglie Acca Larenzia […]

(Augusto, Fraschetti, Romolo il fondatore, Laterza, 2002, pp. 11-12)

 

 

Augusto Fraschetti - Romolo il fondatore

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Dino Buzzati – Il deserto dei Tartari

Giovanni Drogo è un militare di stanza al confine del paese, dove il tempo scorre in maniera diversa da ogni altro luogo. Unica attività: avvistare i segni di movimento nemico all’orizzonte.

Ma gli anni passano ed é il tempo, che scorre inesorabile, a diventare il vero nemico; e ognuno di noi, non solo Giovanni, deve affrontarlo: questo il messaggio. Vivere in attesa fa perdere il senso di ogni altra cosa: quando, durante una guardia, non accade nulla… pensi… e desideri ardentemente che qualcosa succeda, inizi a sperare che il nemico si mostri; del resto sei lì, addestrato e pronto ad affrontarlo.

Leggere Il deserto dei Tartari è stato molto interessante, anche se potrebbe risultar difficile per via di questo clima grigio e triste che pervade ogni cosa; ammetto che potrebbe assalirvi l’impulso di riporlo in libreria, ma dovete resistere! Non cadete in tentazione, la resa vi priverebbe di vivere un’esperienza molto arricchente. E’ già passato qualche anno da quando l’ho letto, ma ne ho ancora un buon ricordo, spero sarà così anche per voi.

[…] crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c’é che gelo, pietre che parlano una lingua straniera, stiamo per salutare l’amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne, perché ci accorgiamo di essere completamente soli.

Quassù è un po’ come in esilio, bisogna pure trovare una specie di sfogo, bisogna ben sperare in qualche cosa.

(Buzzati, Dino, Il deserto dei Tartari, Mondadori, 2011, pp. 65-66, 148)

Dino Buzzati - Il deserto dei tartari

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Jack London – Martin Eden

Jack London riesce a trasmetterci le emozioni di chi vive le proprie passioni fino in fondo. Scrivere può quindi essere un’esperienza border line, un annientamento auto inflitto che ti costringe a rinunciare a tutto, a vivere soli, con l’eccezione della compagnia dei propri scritti. Martin Eden riuscirà a risollevarsi perché, per realizzare il suo sogno, anche quando le energie sembrano mancare del tutto, troverà forze inaspettate e infine raggiungerà la notorietà, l’agognato successo… scoprendo amaramente che nemmeno il grande traguardo  è il lieto fine che ci si aspetta dopo aver sofferto tanto.

Un racconto intenso, dove la passione del protagonista ti travolge. Difficile non tifare per Martin, e ancor più difficile dimenticare questo breve romanzo che ci svela molto del suo autore.

[…] gli venne in mente che la differenza fra tutti quegli avvocati, ufficiali, uomini d’affari e cassieri di banca di sua conoscenzaa e i membri della classe operaia che aveva conosciuto prima, consisteva nel cibo che mangiavano, nei panni che vestivano, nei quartieri in cui vivevano. Era certo che in tutti loro mancava quel non so che che egli trovava in se stesso e nei libri.

(London, Jack, Martin Eden, BUR, 2010, p. 246)

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Miguel de Unamuno – Nebbia

Possiamo decidere il nostro destino? O forse tutto è già stato scritto, e dobbiamo soltanto impegnarci al meglio interpretando la parte che ci è stata assegnata? E se da umili attori trovassimo il coraggio di imporre allo scrittore, il nostro creatore, di cambiare la nostra parte? E’ una pretesa impossibile? Che cosa accadrebbe, se uno scrittore si trovasse alla mercé dei suoi personaggi? Infine, vi chiederete se dio è uno scrittore, o se alcuni scrittori si credono d’essere degli dei.

In Nebbia si parla di questo. I temi trattati sono serissimi, anche se i personaggi grotteschi che incontrerete vi faranno certamente ridere. Infatti, proprio questa è l’intenzione di Unamuno: dar vita ad una tragicommedia dove i personaggi interagiscono con l’autore che li ha creati.

Consiglio di leggere la parte introduttiva, per meglio capire le intenzioni dell’autore, che vuole inaugurare qualcosa di nuovo… che va oltre il romanzo, racconto o come normalmente intendiamo la narrativa. Infatti, lo stesso Unamuno propone il nome “nivola” per definire questo testo, allontanandosi dal canonico novela, parola che definisce i romanzi in spagnolo. Prove di scrittura ai limiti della normalità.

“Sí, señor mío, yo soy anarquista, anarquista místico, pero en teoría, entiéndase bien, en teoría. No tema usted, amigo – y al decir esto le puso amablemente la mano sobre la rodilla -, no echo bombas”. (Si, signore, sono anarchico, anarchico mistico, ma in teoria, beninteso, in teoria. Non temi, amico – e al dire questo gli mise amabilmente la mano sul ginocchio -, non tiro bombe.)

(De Unamuno, Miguel, Niebla, Ediciones Cátedra, 2009, p. 137)

Miguel de Unamuno - Nebbia

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Arto Paasilinna – Prigionieri del paradiso

Possiamo avvicinarci a questo libro semplicemente per passare del tempo in allegria, infatti, Arto Paasilinna sa sempre divertire i suoi lettori presentandoci interessanti personaggi che vivono improbabili ed esilaranti avventure; anche Prigionieri del paradiso non fa eccezione, un evento catastrofico è alla base della storia che porta un gruppo di scandinavi, impegnati in una missione umanitaria, a condividere molto più che un viaggio all’altro capo del mondo: costretti in un’isola deserta, si organizzeranno per sopravvivere in un paradiso che può rivelarsi ostile.

Facendo un po’ di attenzione, però, Prigionieri del paradiso può darci molto di più; infatti, anche se con leggerezza, sono trattati molti temi che offrono spunti di riflessione sull’uomo inteso come animale sociale; Paasilinna fa emergere, grazie all’azione dei suoi personaggi, il bisogno di organizzarsi e di cooperare per risolvere i problemi di tutti i giorni, mostrandoci come dal caos dei primi giorni questo gruppo di superstiti si trasforma in una società con regole e ruoli ben definiti; e così ci troviamo di fronte ad un divertente e irriverente “saggio” di antropologia, dove l’osservatore Paasilinna ci mostra uno spaccato di una società in divenire che cerca ostinatamente di sopravvivere alle avversità dell’isola selvaggia.

I tre uomini trascorrevano tra loro gran parte del tempo libero […]. Passavano ore e ore nella giungla […] Un giorno Vanninen mi disse: “Secondo me quelli stanno trafficando qualcosa di poco chiaro” […] Li avremmo seguiti […] Avevano abbandonato il sentiero ed erano spariti nella boscaglia. […] Ci trovammo davanti ad una distilleria clandestina.

(Paasilinna, Arto, Prigionieri del paradiso, Iperborea, 2009, pp. 116-117-118)

 

Arto Paasilinna - Prigionieri del paradiso

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